Il Primo Colloquio
"Nell'altro non si entra come in una fortezza, ma come si entra in un bosco in una bella giornata di sole. Bisogna che sia un'entrata affettuosa per chi entra come per chi lascia entrare, da pari a pari, rispettosamente, fraternamente. Si entra in una persona non per prenderne possesso, ma come ospite, con riguardo, con venerazione: non per spossessarlo, ma per tenergli compagnia, per aiutarlo a meglio conoscersi, per dargli consapevolezza di forze ancora inesplorate, per dargli una mano a essere se stesso."
Lo psicologo: una figura molto presente, ma poco conosciuta.
Molte persone si sono chieste come funzioni il primo incontro con uno psicologo e che cosa effettivamente accada all’interno di uno studio di psicologia.
Fin da bambini siamo infatti piuttosto abituati a entrare in contatto con altri professionisti sanitari, in particolare con i colleghi medici, ognuno con la sua specializzazione. La nostra esperienza con lo psicologo è invece solitamente più ridotta, in quanto non ci si rivolge a molteplici professionisti della salute mentale e lo psicologo è un esperto che tipicamente accompagna la persona lungo un percorso che in certi casi può durare anche anni.
D’altra parte, mentre siamo tutti abituati a rivolgerci al nostro medico in maniera relativamente frequente e anche in assenza di condizioni fisiche gravi, ad esempio per un’influenza, una tosse persistente o alcuni dolori fisici, questo molte volte non accade per lo psicologo, il quale viene ancora erroneamente visto da qualcuno come un riferimento per le condizioni gravi. Questa è una concezione errata della professione psicologica.
Lo psicologo è infatti un professionista che si occupa di prevenzione, diagnosi, abilitazione-riabilitazione e sostegno in ambito psicologico e parallelamente o in alternativa può svolgere attività di ricerca, sperimentazione e didattica (Legge n. 56 del 18 febbraio 1989, Ordinamento della professione di psicologo); inoltre ha un ruolo importante nella promozione del benessere psichico.
Tale concezione errata dello psicologo rischia poi di complicare il lavoro e rendere più difficoltoso un eventuale percorso di terapia dal momento che si giunge in consultazione solo una volta che la condizione si è aggravata. Infatti, come in medicina, anche in ambito psicologico, l’intervento precoce si associa tipicamente a esiti migliori, per cui il detto “prevenire è meglio che curare” conferma la sua validità.
Spesso, in previsione di un primo incontro con uno psicologo, può sorgere tutta una serie di domande e dubbi legittimi e d’altra parte possono sussistere diverse convinzioni alcune delle quali derivanti da luoghi comuni e falsi miti.
Così qualcuno si è chiesto ad esempio “Mi farà domande troppo personali?”, “Saprò rispondere?”, “Gli dovrò dire tutto?”, “E se mi venisse da piangere?”, “Se non me la sentissi di parlarne?”, “Ci si potrà fidare?” o d’altra parte qualcun altro ha pensato: “Vabbè, ma ci si conoscerà soltanto!”, “Si fanno solo quattro chiacchiere”, “Cosa potrà dirmi che io già non so?”, “Poi lui non ci è passato, cosa ne saprà mai?” o anche “Lo psicologo ascolta e basta”.
Il primo colloquio, o meglio, i primi colloqui!
Vorrei rispondere ad alcuni di questi interrogativi chiarendo il significato dei primi incontri con uno psicologo.
Innanzitutto, con l’espressione “primo colloquio”, in psicologia si fa comunemente riferimento ai primi colloqui, in quanto la prima fase di un percorso psicologico è dedicata all’assessment, cioè alla valutazione del problema portato, processo che raramente si esaurisce in un unico appuntamento.
La prima seduta è sicuramente un incontro tra due persone che in molti casi si vedono per la prima volta e che comunque non hanno esperienze condivise pregresse; dunque dà l’avvio anche a una fase di conoscenza.
Tuttavia la relazione si sviluppa non attraverso una conversazione ordinaria, bensì mediante un dialogo che viene strutturato secondo delle precise modalità.
Differenze tra il colloquio psicologico e la conversazione ordinaria
Ciò che differenzia il colloquio psicologico da una conversazione comune sono principalmente alcuni aspetti:
- una certa struttura, sebbene articolabile in modo flessibile, e delle regole specifiche. In questo senso nella fase di assessment prevale un “formato di indagine” che consente al terapeuta di porre domande e raccogliere elementi utili alla definizione chiara del problema. Questo non significa che non viene lasciato spazio alla narrazione spontanea della persona, ma che si andranno a recuperare ulteriori aspetti eventualmente omessi o trascurati nel racconto;
- una definizione particolare dei ruoli e dei compiti. Infatti terapeuta e paziente sono due persone che cooperano, ognuno con le proprie diverse competenze e il proprio ruolo distinto (il terapeuta è l’esperto del metodo, ma rimane sempre il paziente l’esperto di se stesso e della propria esperienza);
- il focus è sul paziente e sui suoi vissuti e non su quelli del terapeuta, sebbene in alcuni casi possano esserci condivisioni da parte del professionista;
- la definizione e il perseguimento di un obiettivo comune, che riguarda il benessere del paziente.
Prima di fare.. comprendere!
Durante i primi colloqui si cerca prima di tutto di comprendere il problema e definirlo il più chiaramente possibile.
Ci sono infatti situazioni in cui è presente un disagio, ma questo è avvertito in maniera diffusa ed è invece necessario lavorare insieme per andare a delinearne il perimetro. In altri casi qualcuno potrebbe essere spinto a iniziare un percorso da qualche familiare, amico o dal partner e anche in queste situazioni è importante esplorare la motivazione personale rispetto a una consulenza psicologica o a un’eventuale terapia.
Solo circoscrivendo il problema sarà possibile definire insieme degli obiettivi condivisi, elemento fondamentale per la buona riuscita del percorso.
Durante i primi colloqui si lavorerà a un passaggio essenziale che nell’approccio che utilizzo viene definito come “riformulazione interna del problema”.
Riformulare internamente il problema significa restituire alla persona il ruolo di protagonista della sua esperienza interna ed esterna e un controllo su ciò che le accade. La riformulazione del problema viene costruita con il paziente che è visto come soggetto di scoperta e riguarda l’identificazione dei propri temi di fondo, dei propri significati, delle proprie sensibilità personali e dei propri modi di vedere la realtà.
È a partire da questa riformulazione che è possibile stabilire degli obiettivi condivisi che consistono in cambiamenti che la persona possa produrre da sé. La meta terapeutica non può infatti consistere in un generico “stare bene”, “essere felice”, “essere tranquillo”, “non avere più paura”; non può in altri termini essere definita con uno stato d’animo, in quanto lo stato d’animo è qualcosa che possiamo sperimentare quando capita, ma che non possiamo produrre direttamente (Guidano, 2008).
Questa fase viene affrontata fornendo alla persona delle istruzioni e dei compiti per imparare ad auto-osservarsi. È infatti solo attraverso l’auto-osservazione che è possibile comprendere bene il problema e il proprio funzionamento.
Il professionista ha il compito di aiutare l’individuo a crearsi una prospettiva diversa, costruendo un inquadramento che le consenta di fare dei collegamenti tra elementi della propria esperienza quali sintomi, stati interni (pensieri, immagini, emozioni) e relazioni interpersonali.
Questo viene fatto in generale attraverso un addestramento all’auto-osservazione che comincia fin dai primi colloqui.
Oltre a istruire la persona in questo senso, il professionista effettua, con la collaborazione del paziente, altre 3 importanti operazioni di indagine...
I tre passi fondamentali di un buon assessment:
- Nel corso dei primi colloqui lo psicologo effettua l’anamnesi personale e familiare del paziente. Si ricostruisce quindi insieme alla persona il contesto di vita e familiare attuale e pregresso (la famiglia d’origine) nei suoi elementi essenziali e si recuperano eventi della storia di vita e dell’itinerario di sviluppo eventualmente significativi.
- Il nucleo centrale dell’assessment è quello che viene definito “analisi funzionale” del sintomo. Si ricostruisce accuratamente insieme alla persona l’esperienza problematica, che forma assume, le circostanze in cui si presenta e le conseguenze del problema in termini esterni (nell’ambiente) e interni (emozioni e pensieri). È a partire dall’analisi funzionale che la persona viene accompagnata nella ricerca di elementi invarianti all’interno della propria esperienza e nell’individuazione di collegamenti tra aspetti della stessa.
- Accanto all’analisi funzionale, un altro passo fondamentale dei primi colloqui è la ricostruzione storica del problema. Anche questo aspetto è fondamentale in quando si inserisce il problema in una cornice temporale che permetta di recuperare dei significati ed elementi utili al processo terapeutico. Si va perciò a ricostruire l’insorgenza ed eventualmente l’evoluzione nel tempo della problematica prestando particolare attenzione a eventi che possano essere intercorsi e avere assunto un ruolo nell’esordio o nella modificazione del quadro.
Non dimentichiamoci dell’alleanza terapeutica...
Le prime sedute sono inoltre importanti per cominciare a costruire quella che viene definita come “alleanza terapeutica” nella quale rientrano non solo gli aspetti già citati di condivisione esplicita degli obiettivi e di definizione di ruoli e compiti ben specifici, chiari e differenziati, ma più in generale la costruzione di un legame collaborativo basato su rispetto e fiducia reciproci (Bordin, 1979).
La qualità dell’“alleanza terapeutica” o “alleanza di lavoro” che paziente e terapeuta riescono a costruire è risultata essere un fattore di fondamentale rilievo e impatto per gli esiti della terapia (Krupnick et al. 1996; Arnow el al., 2011; Kocsis, 2013; Stamoulos et al. 2016).
Ma quando inizia la terapia?
Abbiamo detto che le prime sedute sono dedicate in generale alla costruzione dell’alleanza terapeutica e alla valutazione della problematica, quindi alla definizione del problema, alla sua ricostruzione e riformulazione interna. Ma quando inizia la terapia?
Innanzitutto va precisato che non tutte le consulenze psicologiche evolvono in una psicoterapia. Un percorso psicoterapeutico può essere più o meno indicato a seconda della situazione del singolo individuo e in ultima istanza sarà comunque il paziente a decidere se desidera intraprenderlo e se sia sufficientemente motivato.
A prescindere da ciò, la fase d’assessment può ritenersi già terapeutica. In particolare secondo Vittorio Guidano (2008), la riformulazione interna del problema che si effettua all’inizio del percorso psicologico può essere considerata “il primo atto terapeutico fondamentale”, già capace di produrre effetti consistenti in quanto la persona è portata a pensare al problema in modo differente.
Tornando alle domande iniziali...
Abbiamo quindi chiarito che i primi colloqui non sono una semplice “chiacchierata” e che non è il terapeuta a dare delle risposte, dei “consigli”, ma il suo compito è quello di accompagnare la persona, attraverso l’impiego di un metodo, affinché si trovi nelle condizioni di poter scegliere da sé ciò che è meglio per poter “risolvere” il problema. Questo è uno dei motivi per cui non è importante che il terapeuta abbia vissuto le stesse esperienze del paziente. Al contrario, paradossalmente, un terapeuta che ha già vissuto un’esperienza analoga, qualora non fosse adeguatamente allenato ad auto-osservarsi, rischierebbe di sovrascrivere la propria esperienza su quella dell’altra persona, attribuendo all’altro pensieri ed emozioni che ha percepito lui in quella circostanza. Ognuno di noi ha tuttavia un suo particolare vissuto in relazione a eventi che pure possono sembrare simili (lutti, separazioni, malattie, perdita del lavoro…) e l’obiettivo del terapeuta, al fine di comprendere la persona che ha di fronte, rimane quello di guardare il mondo attraverso gli occhi dell’altro.
Per quanto concerne le domande che lo psicologo rivolge, il paziente non è mai obbligato a rispondere. È chiaro che il materiale sul quale si lavora sono i contenuti riportati dalla persona e non possono naturalmente essere portati dal terapeuta. Tuttavia non è necessario lavorare su questioni troppo dolorose fin da subito e ci si può occupare di contenuti più facilmente gestibili, i quali comunque ci permettono di sviluppare le nostre competenze metacognitive, essenziali per la salute della nostra mente.
Può poi capitare, affrontando alcune tematiche critiche, che venga da piangere. Molti di noi non sono abituati a piangere davanti a qualcuno e per motivi differenti questo può comportare una certa quota di disagio. Chiaramente dallo psicologo piangere è concesso, e le eventuali difficoltà nel mettere in condivisione il pianto potranno loro stesse, a seconda dei casi, divenire oggetto di osservazione ed esplorazione congiunta.
Verso la terapia
Qualora si decida di intraprendere un percorso psicologico, sempre facendo riferimento all’orientamento teorico cognitivista post-razionalista, ci avventureremo in un percorso che partirà dall’esplorazione del presente (repertorio attuale), per andare in un passato prossimo e solo per chi vorrà, per i più curiosi, per i più convinti e motivati ci si potrà inoltrare a pieno in un passato remoto, nella propria storia di sviluppo (Guidano, 1992, 2008).
Ogni attività richiede infatti una pratica, e così è per l’auto-osservazione. Nessuno comincia scalando il monte Everest se non ha mai fatto una passeggiata attorno a casa.
Riferimenti bibliografici
Arnow, B. A., Steidtmann, D., Blasey, C., Manber, R., Constantino, M. J., Klein, D. N., ... & Flückiger, C., Del Re, A. C., Wampold, B. E., Symonds, D., & Horvath, A. O. (2011). How central is the alliance in psychotherapy? A multilevel longitudinal meta-analysis. Journal of counseling psychology, 59(1), 10-17.
Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, research & practice, 16(3), 252-260.
Guidano, V. F. (1992). Il Sé nel suo divenire: verso una terapia cognitiva post-razionalista. Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano, V. F. (2008). La psicoterapia tra arte e scienza, Franco Angeli, Milano.
Kocsis, J. H. (2013). The relationship between the therapeutic alliance and treatment outcome in two distinct psychotherapies for chronic depression. Journal of consulting and clinical psychology, 81(4), 627-638.
Krupnick, J. L., Sotsky, S. M., Simmens, S., Moyer, J., Elkin, I., Watkins, J., & Pilkonis, P. A. (1996). The role of the therapeutic alliance in psychotherapy and pharmacotherapy outcome: findings in the National Institute of Mental Health Treatment of Depression Collaborative Research Program. Journal of consulting and clinical psychology, 64(3), 532-539.
Stamoulos, C., Trepanier, L., Bourkas, S., Bradley, S., Stelmaszczyk, K., Schwartzman, D., & Drapeau, M. (2016). Psychologists’ Perceptions of the Importance of Common Factors in Psychotherapy for Successful Treatment Outcomes. Journal of Psychotherapy Integration, 26(3), 300-317.